“La cosa che so fare meglio è vendere”, scriveva Donald Trump nella sua autobiografia di tycoon da sogno americano prima di lanciarsi nella politica. Da presidente degli Stati Uniti usa le stesse strategie che utilizzava quando era un immobiliarista di successo nelle trattative commerciali con gli altri paesi: Trump usa i dazi come un’arma per alzare la posta e ottenere quello che vuole.
Così i 250 miliardi di tariffe imposte all’export di prodotti cinesi lo hanno aiutato nella guerra commerciale on la Cina ad andare verso quello che lui chiama “l’accordo epico per il popolo americano” in arrivo pare con Pechino.
Ora Trump usa lo stesso copione con l’Europa. Mette subito in chiaro le regole del gioco e prepara il campo ai negoziati con l’Ue, che nonostante i tweet, a ragione presumibilmente partiranno dopo le elezioni di maggio con il nuovo Parlamento e successivamente con la nuova Commissione.
Nel calderone delle minacce di dazi contro l’Europa c’è un po’ di tutto: si parte per ora con 11 miliardi di dazi ventilati che gli americani potrebbero decidere su una lunga lista di prodotti accusati di aver ricevuto aiuti dall’Ue. Airbus è diventata il primo obiettivo per gli aiuti ottenuti rispetto alla rivale Boeing (capitolo finito al primo posto indirettamente dopo la frenata inevitabile del colosso americano causata dalla crisi dei 737), poi in un altro capitolo ci sono le auto tedesche, con la componentistica italiana, che il presidente non vuole più vedere sfrecciare sulla Quinta strada (dimenticando che le auto tedesche vengono già prodotte per larga parte negli Stati Uniti: Bmw è il primo esportatore di auto made in Usa). Nel calderone sono finiti anche il cibo e il vino. Il buon vivere dell’Italian way che tanto piace agli americani dei fast food: il pecorino romano, i vini frizzanti come il Prosecco – i prodotti più venduti per quantità ma a prezzi troppo bassi che penalizzano tutto il resto del made in Italy di qualità – l’olio d’oliva, le marmellate. Ma ci sono anche le biciclette da corsa, e le moto nella lunga lista di prodotti che potete leggere qui
Dall’altro lato nel summit annuale in corso tra Europa e Cina escono segnali di pace, che sembrano andare in tutt’altra direzione solo apparentemente. Perché è improbabile che si risolvano tutti i problemi legati al commercio e agli investimenti cinesi in Europa ancora esistenti dopo sei anni di tentativi di negoziati. Il tema è quello del terreno di gioco comune che offra parità di condizioni: in Cina le restrizioni agli investimenti esteri sono più stringenti rispetto a quelle europee in tutti i settori. L’accesso al mercato per le aziende europee non è alle stesse condizioni, così come la proprietà intellettuale che non è sufficientemente tutelata. Sono più o meno gli stessi capitoli che Trump rivendica con la Cina nella sua strategia di venditore di grattacieli. Il merito delle minacce del presidente Trump, comunque la si voglia vedere, è quello di riuscire in questo modo, alzando la voce con i cinguettii, a mettere al centro dell’agenda delle relazioni diplomatiche i capitoli commerciali, che di solito non scaldano le cronache. Poi, per i negoziati, c’è un momento inevitabile in cui bisogna sedersi attorno a un tavolo. E cominciare a trattare. E lì le cose si fanno più complesse e diventano lunghe. Ci vogliono tempo, capacità negoziale, visione, unità di intenti (non sempre facile tra i partner europei, dove ogni paese cerca di portare l’acqua al suo mulino).
La partita tra Stati Uniti ed Europa è solo all’inizio.